UN PROBLEMA LINGUISTICO
Spesso leggo sui vari social che “il counseling è degli psicologi”.
Quando poi vado a scorrere le discussioni in maniera più approfondita mi viene da (sor)ridere perché a volte ho la sensazione che persino gli psicologi usino in maniera errata la parola counseling, confondendola con la classica consulenza psicologica.
Qui infatti si tratta di un problema linguistico poiché le parole bisognerebbe usarle per quello che realmente indicano e non per l’accezione che la gente ha attribuito loro nel tempo. Questa moda di cambiare significato alle parole crea problemi non solo nella comunicazione ma proprio nella società stessa.

Quindi… il counseling è davvero degli psicologi?
La risposta giusta è: dipende da come usi la parola counseling. Se la usi correttamente, non è necessariamente degli psicologi poiché il counseling afferisce alla comunicazione; se invece la usi in maniera sbagliata, come quasi tutti fanno, allora forse (ma dico forse!) gli psicologi qualche motivo di arrabbiarsi ce l’hanno.
E adesso lascia che ti spieghi.

L’ASCOLTO ATTIVO
Il counseling puro, quello rogersiano, prevede semplicemente l’ascolto attivo della persona (e guarda che non è così facile come sembra!).
In un mondo dove la maggior parte delle persone ti parla sopra senza neanche farti finire la frase, saper ascoltare è un’arte che davvero in pochi sanno esercitare; neppure essere psicologi, psicoterapeuti o counselor qualificati dà la garanzia di saper ascoltare, perché saper ascoltare significa soprattutto essere sensibili, essere discreti, saper leggere dentro l’altra persona, dentro i suoi non detti, dentro i suoi gesti, dentro ciò che dice (o scrive) fra le righe. Per saper ascoltare è necessario avere realmente un sincero rispetto verso l’altro, volere realmente il suo bene anche se “il suo bene” corrisponde a qualcosa che tu non condividi.
Saper ascoltare significa voler capire e voler conoscere; e tutti hanno il desiderio di sentirsi capiti, accettati e conosciuti, soprattutto quando stanno attraversando un momento di incertezza. Pochi invece hanno questo dono di accoglienza (perché di accoglienza, fondamentalmente, si tratta).
Quindi, ecco: il counseling vero richiede innanzitutto questa capacità, che non è una capacità che si acquisice con gli studi; o meglio: gli studi aiutano molto ma di base devi avere una tendenza all’accoglienza e al rispetto totale dell’altro.
E questo è un aspetto.

GLI ATTI COMUNICATIVI E IL PROCESSO DI CHIARIFICAZIONE
In secondo luogo, il counseling rogersiano, oltre all’ascolto attivo, prevede alcuni atti di comunicazione (riformulazione, sintesi ecc.) che mirano a rimandare all’altro ciò che ti ha detto. “Eh, ma allora il counselor fa il pappagallo?” mi è stato chiesto. Ecco, chi fa questa domanda ignora quanto sia potente non solo l’ascolto attivo ma anche il rimandare all’altro le sue parole, in maniera corretta come prevede il counseling puro: cioè senza aggiungere, senza togliere, senza fare domande, senza dare consigli e senza interpretare.
Pensi che sia facile? Prova a farlo e vedrai che non lo è.
Ecco, questo è il counseling vero: ascolto attivo, seguito da specifici atti di comunicazione. Stop.
E a cosa serve? Serve a far sentire l’altro accolto e capito; e grazie a questa sensazione di accoglimento gli si attiva, in automatico, un processo di chiarificazione. Intendiamoci: non sei tu, in maniera diretta, che gli chiarisci le idee; è lui che se le chiarisce da solo. La chiarificazione è un processo collaterale del counseling, che si attiva grazie all’ascolto.

Quindi per quale motivo questo tipo di attività, così come te l’ho descritta, dovrebbe essere prerogativa degli psicologi? Lo psicologo, proprio perché ha studiato tanto, si occupa – e si dovrebbe occupare – anche di altre cose. Inoltre, sempre perché ha studiato, ha il diritto e il dovere di fare domande e di indagare sulla vita del soggetto, cose che un counselor non è tenuto a fare.
PERCHè ALCUNI OPERATORI SI DEFINISCONO COUNSELOR?
Ora, poiché la chiarificazione – oltre che con l’ascolto e la riformulazione (metodo rogersiano) – si può attivare anche con altre modalità (attività espressive, meditazioni ecc.) oggi la parola counseling viene usata (in maniera erronea!) anche per abbracciare una categoria di persone che lavorano nella relazione d’aiuto svolgendo (e facendo svolgere) attività che non sono proprie né del counseling rogersiano né della psicologia classica. Io penso che molti di quelli che si definiscono oggi counselor, poiché non usano (a volte neanche durante il colloquio) il metodo rogersiano, debbano rientrare in altre categorie professionali, sebbene anche lo scopo delle loro attività sia la chiarificazione.
Questo errore linguistico è, a mio avviso, il motivo per cui si è creata questa confusione ed è anche il motivo per cui gli psicologi rivendicano questo lavoro (anche se, secondo me, gli psicologi dovrebbero anche chiedersi come mai molti clienti preferiscono rivolgersi a questa categoria anziché alla loro).
Ci sono inoltre persone (tra cui purtroppo devo inserire alcuni medici) che dicono di fare counseling senza sapere assolutamente nulla di questa disciplina e facendo purtroppo anche discreti danni, perchè dare consigli – soprattutto consigli stravolgenti – a una persona in difficoltà è sempre molto rischioso. Un counselor – un vero counselor – non può dare consigli.
Autrice: © dott.ssa Dhyana Cardarelli – Verde speranza blog (www.verdesperanza.net). Tutti i diritti riservati. E’ severamente vietato riprodurre qualsiasi testo del blog altrove – anche modificando le parole – senza citare la fonte.
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